
Eccomi qua a scrivere dell’ultimo film della saga di Indiana Jones. Dico (e spero) ultimo perché Harrison Ford ha confermato che non indosserà più il cappello del personaggio che tanto abbiamo amato e che decisamente meritava un addio migliore dopo quello scempio del “Regno del teschio di cristallo”… e alla fine con questo quinto film avremo decisamente un ricordo migliore del personaggio creato da George Lucas e reso immortale dai primi tre film diretti da Steven Spielberg.
Il quadrante del destino è tutt’altro che un film perfetto, ma almeno ha l’anima di Indiana Jones: si apre con un lungo flashback in cui ritroviamo il nostro eroe ai tempi dei nazisti, con un Harrison Ford ringiovanito grazie alla Intelligenza Artificiale (in certi momenti non proprio perfetta ma meglio del risultato terribile di “The Irishman”), e questa intro ci fa decisamente tornare alle emozioni di un tempo. Ma quando poi si torna nel presente (1969, con l’uomo appena sbarcato sulla luna, il mondo in grande fermento e Indiana che vive in solitudine e tristezza) il film inizia un po’ a perdere qualche colpo e a finire in troppi cliché, inserendo anche diversi fan service abbastanza gratuiti.

Ma almeno per tutta l’opera di James Mangold, che sostituisce con buona mano dietro la macchina da presa Steven Spielberg, non ho mai pensato “che noia, che schifo, che trash o altro…” mi sono goduto il viaggio: ho visto un Harrison Ford che ce l’ha messa davvero tutta per dare una degna conclusione al suo personaggio, e anche se in diverse scene l’atleticitá con cui questo ottantenne sbaraglia i nemici era un po’ ridicola, gli ho voluto bene per tutta la durata del lungometraggio.
Mettere al suo fianco Phoebe Waller-Bridge (geniale ideatrice delle serie “Fleabag” e Killing Eve”) non è stata una brutta idea: il suo personaggio è decisamente più che una spalla, è una vera e propria coprotagonista alla pari di Indy, ma inserire insieme a lei il ragazzino, per richiamare il trio de “Il tempio maledetto”, non ha reso bene e non è stato altrettanto divertente.

Mi dispiace anche che un grande attore come Mads Mikkelsen, che negli Stati Uniti sembra possa fare solo il cattivo, abbia un ruolo così poco carismatico, così lontano dal suo villain in “007 – Casino Royale”. La sua presenza non incute timore ed è troppo piatta, di quelle che non rimane a lungo nella memoria dello spettatore.

Oltre alle situazioni inserite nel film tanto per richiamare la vecchia trilogia ci sono anche diversi cameo che dicono poco o nulla. È un piacere rivedere personaggi come Sallah (John Rhys-Davies) dopo tanto tempo, ma compare talmente poco che è quasi ininfluente sulla trama, che rimane in generale abbastanza basic…

Vogliamo poi parlare dell’inutile Antonio Banderas!?! Meglio di no…
Ovviamente non voglio spoilerare ma non posso non parlare del finale che è la grande incognita del film: ho trovato il tutto quasi esagerato e ammetto che ancora non capisco se in fondo mi piace o se è troppo fuori luogo. La saga di Indiana ha sempre avuto elementi che vanno aldilà dell’umana comprensione, ma ritengo comunque che questo finale abbia decisamente più senso di quello con gli alieni del film precedente.
Come sempre il mio pensiero non cambia, la saga doveva finire con i primi tre film, ma almeno qui sento che Ford ha dato un addio degno a Indiana e che ora possa serenamente tenere cappello e frusta da parte. Dubito che mi rimetterei a guardare volentieri questo film, ma di certo mi è tornata voglia di rivedere i primi tre.
